di Lina Cammarano

Nella camera vi erano due brandine, quando la signora con sguardo arcigno bloccò ogni mia eventuale osservazione o richiesta e se ne andò, accompagnando la porta verso l’uscio.
Perlustrai copriletti, lenzuola e materassi, ma non ebbi possibilità di scelta: tutto era lurido, di una sporcizia atavica. Anche i servizi igienici lasciavano a desiderare: erano in comune, sul pianerottolo. Per giunta, la porta non si chiudeva bene. Per l’umidità dell’edificio, il legno si era gonfiato e strusciava sul pavimento, lasciando aperta una fessura di alcuni centimetri. C’era però il vantaggio che, per aprire la porta, bisognava fare un po’ di forza: c’era così il tempo di fronteggiare situazioni eventuali di emergenza, qualora altri ospiti avessero avuto bisogno del bagno mentre già qualcun altro era dentro. In ogni caso decisi di usarlo subito, mentre i coinquilini del pianerottolo, come avevo potuto intuire, erano occupati a terminare la cena sotto l’ombrellone. Così almeno sarei stata tranquilla.

Mi lavai, indossai il pigiama pulito, presi un asciugamano dalla valigia, lo distesi su un piccolo tavolino disposto fra una branda e l’altra, ci appoggiai il viso e cercai di dormire. Volevo apparire riposata per il mattino successivo, in vista del mio primo incontro con la dirigente scolastica, ma mi svegliavo di continuo, sobbalzando al suono delle onde del lago che si infrangevano sulla parete di contenimento, accanto alla strada che lo costeggiava.
Così trascorsi la notte tra finestra e brandina: indossavo il giubbino sopra al pigiama, aprivo lentamente le ante, per non fare rumore e non infastidire i vicini di camera che, però, non avevano la stessa delicatezza nei miei confronti. Proprio quando riuscivo finalmente ad assopirmi, mi svegliavano, aprendo rumorosamente la porta del bagno. Affacciata sulla piazza, i lampioni accesi mi aiutavano a seguire il movimento delle onde del lago, conciliandomi il sonno. Mi coricai di nuovo, proseguendo così fino a quando sorse l’alba e sentii provenire dal bar il profumo del caffè. Pensai fossero i vicini di camera ad averlo ordinato, per cui decisi di approfittarne per andare a lavarmi, vestirmi e raggiungere la scuola in anticipo. Invece, quando aprii la porta, dalla camera accanto sentii qualcuno che russava. Capii di non essere sola e cercai quindi di ridurre tutti i rumori, incluso il flusso dell’acqua del rubinetto, riuscendo in qualche modo nell’impresa.

Una volta pronta, decisi di consumare un latte e caffè nella pasticceria collocata sul lato opposto della piazza, da cui, fino a sera tarda e poi di nuovo all’alba, avevo visto entrare e uscire delle signore molto distinte che, dopo la colazione, si erano messe ad attendere la corriera per Como. La frequenza degli avventori mi diede l’idea di un luogo molto curato e pulito. Scesi le scale dell’albergo senza che nessuno si accorgesse di me, arrivai nel bar e trovai la ragazza che, con uno straccio dall’aspetto lurido, invecchiato, puliva il tavolino accanto al quale la sera prima avevo consumato il gelato. La salutai, mi rispose, ma non mi domandò se avessi bisogno di qualcosa, se ero riuscita a riposare, o altro. Semplicemente sembrava stufa di quel sudiciume quanto me e non sembrava interessata ai clienti. La sua apatia favorì la scelta di fare colazione altrove e di uscire dall’albergo Dongo, praticamente inosservata.

I proprietari nel frattempo discutevano a bassa voce tra loro, a proposito di come organizzare le faccende del giorno. Parlottavano in uno scantinato che avevo notato la sera precedente, mentre salivo lungo le strettissime e anguste scalinate. Anche la barista si era mostrata disinteressata nel propormi la colazione e non c’era nessuno ai tavolini all’aperto. A farle compagnia c’era solo la brezza del lago. Attraversai la piazza, sostai a lungo accanto al monumento dedicato ai partigiani che avevano combattuto contro il nazifascismo, provando a immaginare quale orientamento sociopolitico potessero avere gli abitanti di un paese collegato a eventi tanto drammatici della storia d’Italia. La stessa domanda me la stavo ponendo a proposito della Dirigente che avrei incontrato quella stessa mattina.

Il monumento distava pochi metri dalla fermata della corriera per Como, ma io ero così presa dai miei pensieri da non essermi accorta subito della presenza di una donnina bionda, chiara di carnagione, curata nell’abbigliamento e nei modi, il cui accento non aveva però proprio nulla di nordico: la successione ininterrotta di sillabe gutturali nel suo modo di parlare faceva, anzi, chiaramente intendere che era di origine calabrese. Mi sentii più vicina a casa, accorgendomi che, nonostante la distanza geografica, ero in compagnia di tante persone più meridionali di me. Entrai finalmente nella pasticceria. Una signora di mezza età mi fece un cenno, invitandomi ad accomodarmi, facendomi capire che mi avrebbe raggiunto subito dopo aver terminato l’operazione di cassa che stava sbrigando. A mia volta, con uno sguardo, le feci intendere che non avevo intenzione di sedermi e, intanto, mi avvicinai alla cassa. La signora mi sorrise, come se mi avesse già conosciuta e mi aspettasse per comunicarmi qualcosa. Infatti, appena fui vicina al banco bar, mi disse: «Buongiorno, benvenuta! È una delle insegnanti che stiamo aspettando?»
«Sì, sì», le risposi.

Rimasi piuttosto stupita della sua gentile accoglienza e del fatto che anche una barista del paese fosse a conoscenza del rinnovo dell’organico dell’istituto scolastico. Al sud mi avevano insegnato che la gente del nord era fredda, che ciascuno si occupava solo di sé, che non erano propensi al dialogo.
La signora intuì il mio stupore e continuò: «Lei insegnerà alle medie, vero? So che ne aspettiamo due o tre, non ho ben capito di preciso se sono professori di lettere». Le risposi di non sapere ancora quanti insegnanti occorressero ma confermai che che io sarei dovuta essere una delle docenti di lettere. Però non riuscii a trattenermi dal domandarle come e cosa le avesse fatto ipotizzare il motivo della mia presenza in quel paese. Mi rivelò con garbo, senza nascondere il suo interesse concreto, che, oltre a essere proprietaria del bar-pasticceria, disponeva di monolocali e bilocali che in genere affittava durante la stagione estiva ai turisti e, durante il periodo scolastico, agli insegnanti fuori sede. Quindi, per gestire queste due fasi degli affitti, periodicamente si recava presso la segreteria della scuola per informarsi se erano previsti arrivi di insegnanti che avrebbero avuto necessità di un alloggio. Così aveva saputo un paio di giorni prima dell’arrivo di insegnanti dalla Campania e dalla Sicilia.

Le parole della donna mi alleggerirono, sollevandomi dall’incubo di dovere trascorrere anche solo un’altra notte nel sudiciume dell’albergo in cui mi ero ritrovata.
La ringraziai per la disponibilità ad accogliermi e mi riservai di discutere dell’alloggio dopo la presa di servizio, ragionando tra me e me sul fatto che, visto il tamtam delle notizie sul mio arrivo, avrei io stessa potuto avere notizie dalla segreteria della scuola sulla scelta conveniente di un alloggio, anche considerando il carattere di chi me lo avrebbe affittato.
Sorseggiai con calma il latte e caffè, divorai lentamente anche una brioche farcita di marmellata all’arancia, salutai e mi incamminai per attraversare la piazza e prendere dalla valigia tutta la documentazione che credevo necessaria per la presa di servizio.

CONTINUA

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