di Lina Cammarano
Dell’allora lungolago di Dongo vorrei respirare la brezza di quella sera di settembre, quando, discesa dalla corriera proveniente da Colico, adagiai due gonfie valigie sul ponte del torrente Albano e poi sfidai il buio e il marciapiede stretto per dirigermi verso il centro del paese e, giunta in centro, vi ritrovai la corriera che faceva capolinea. Quanto ero emozionata!
Ero scesa dalla corriera poco dopo le porte del paese, ma non m’importava affatto di non potermi più spostare comodamente seduta: nonostante la penombra e l’avanzare dell’imbrunire, volevo perlustrare l’ignoto abitato prealpino passo dopo passo. Soprattutto non vedevo l’ora di raggiungere il mio primo luogo di lavoro.
Stava nel frattempo calando il buio, le luci della strada sembravano sempre più delle deboli fiammelle, ma volli comunque attraversare a piedi il paese per dare uno sguardo all’edificio della scuola dove ero stata convocata per l’indomani.
Attraversai il ponte sul torrente Albano e vidi alla mia destra un cartello che indicava la Svizzera a pochi chilometri. Quella fonte fu esplosiva più di un lampo, mi fece avvertire di quanto mi ero allontanata dal mio paese. Avevo inoltrato la domanda d’insegnamento anche nelle scuole della mia provincia, l’avevo spedita o portata personalmente, chiedendo agli addetti al protocollo di inserirmi in graduatoria e, fiduciosa, avevo aspettato il mio turno… Ma fino allora non era arrivato.
Dopo il ponte, a sinistra, imboccai la Via Iginio Gentile. La scuola Giorgio Enrico Falck era chiusa. Mi fermai davanti al cancello per ammirarla, poiché dalle finestre traspariva una luce fioca. Mi sembrava viva e attiva anche di notte: l’immagine di una scuola diversa da quelle che ero abituata a vedere nel mio paese e in tutta la mia città.
Nei giorni successivi seppi che quell’armonia di vita le veniva garantita dalla presenza fissa di un custode e della sua famiglia. Notai la cura del giardino, le aiuole rinnovate da fiori piantati da pochi giorni e quasi certamente destinati a rendere festoso l’inizio dell’anno scolastico. Costeggiai tutto il giardino della scuola finché non intravidi l’insegna luminosa dell’ufficio postale: lo considerai una indicazione utile per la direzione da seguire, immaginando che si trovasse nei pressi del centro del paese, dove avrei quindi potuto trovare un albergo.
Perlustrai la strada a destra e a manca senza però trovare ciò che cercavo ormai con una certa ansia. Avevo bisogno di riposarmi almeno un poco, dopo la giornata di viaggio e, allo stesso tempo, dovevo fermarmi un attimo per placare le emozioni contrastanti che mi attraversavano. Stavo per dare inizio alla mia carriera di insegnante, ma avvertivo anche il magone di essermi dovuta allontanare dalla mia famiglia.
E, sebbene fossi rimasta sotto le stelle a guardare incantata il paesaggio che mi circondava, di certo non era quella la circostanza adeguata per farlo: dovevo riposare per presentarmi al mio primo giorno di lavoro.
Percorsi tutta la strada dopo l’insegna e mi trovai ad un altro bivio. Valutai che, se fossi andata verso sinistra, sarei ritornata sul ponte; verso destra, ad una certa distanza, si intravedeva uno spazio simile ad una piazza. Decisi di raggiungerlo. La via era lastricata di ciottoli quadrati, le rotelle delle mie valigie man mano che battevano sulle fughe tra un quadratino e l’altro producevano un rumore che avrei voluto evitare. Avevo la sensazione che tutte le famiglie, nel silenzio delle loro case, mi sentissero. Avrei voluto sollevare le valigie, ma non potevo: pesavano troppo, non ce la facevo.
Arrivata in fondo alla strada mi trovai in piazza Giulio Paracchini, martire della Resistenza. Allora non lo sapevo, ma osservai con attenzione case ed edifici che la contornavano: un bar, due cartolerie, rispettivamente sui due lati della piazza, perpendicolari al lago, il palazzo del municipio, una biblioteca, due pasticcerie, la farmacia e poi delle case private con le famiglie raccolte davanti alle televisioni. Lo intuivo dalle finestre e dai balconi illuminati, che riflettevano in gran parte i colori delle tipiche luci bluastre delle trasmissioni TV. Filtravano dalle persiane socchiuse, perché la temperatura era già autunnale a quell’ora di sera.
Chiusi gli occhi, mi veniva da piangere. Allo stesso tempo, pensavo che non era il caso di sprecare energie lasciandomi andare al senso di sconforto. Ero sola, ma dovevo farmi forza e trovare una soluzione. Proprio quando stavo iniziando a sentirmi preda della disperazione, in uno degli angoli opposti della piazza notai un’insegna, con solo qualche lettera illuminata. Ebbi la percezione che si trattasse di una struttura che aveva conosciuto tempi migliori, divenuta ormai una mera testimonianza del passato boom economico dell’alto Lario.
Attraversai l’intera piazza e mi avvicinai: a pian terreno c’era un piccolo bar, quasi vuoto, con una ragazza che si dimenava tra il banco dei gelati e la macchinetta del caffè. Accanto a un tavolino, sotto un ombrellone da giardino, una specie di gazebo, un po’ appartato rispetto all’entrata del bar, sedevano un uomo e una donna, anziani, con l’aspetto di turisti nordici, intenti a mangiare un tramezzino. Mi fermai sul limite di quella sorta di giardino e lessi la scritta inchiodata alla parete centrale dello stabile “Albergo Dongo”.
Provai finalmente una sensazione di sollievo e libertà, dopo l’Odissea iniziata all’alba di quella lunga giornata. Gli indizi esterni e quelli del pian terreno facevano immaginare un ambiente vecchio, trascurato, semi-abbandonato. Tuttavia, quand’anche le circostanze mi avessero costretta a rimanere in piedi tutta la notte, non concependo neppure lontanamente l’idea di poter dormire in un letto igienicamente precario, avrei comunque avuto un tetto sulla testa. Entrai quindi nel bar e domandai alla ragazza se c’era la possibilità di avere una stanza, almeno per quella notte: mi rispose che non era lei ad occuparsene ma che, se ero interessata, avrebbe interpellato i proprietari, al momento impegnati. Mi resi conto che in quel momento non desideravo altro.
Intanto avvertivo il bisogno di un refrigerio, così chiesi un bicchiere d’acqua fresca.
Mi sedetti a un tavolino, fra il banco del caffè e quello dei gelati, avvicinai in modo raccolto le mie valigie e aspettai che la ragazza mi portasse l’acqua. Giuntami accanto, le domandai se ci fossero dei gelati confezionati, ma la giovane intuì la ragione della mia richiesta: trasmettevo con chiarezza il disagio di sentirmi in un posto sudicio e privo di igiene. Così, per rassicurarmi, la ragazza mi propose un gelato artigianale, servito in un bicchiere di plastica. Mi sollevò così da ogni timore. Accettai e le chiesi di portarmene uno ai frutti di bosco e fragola. Non c’erano d’altra parte molte alternative: l’unica variabile era il gusto al limone. Iniziai a consumare il mio gelato, procedendo abbastanza lentamente. Prendevo tempo, quasi volessi abituarmi all’idea di scoprire altre forme di degrado nella stanza che mi avrebbero assegnato.
Stavo ancora raccogliendo qualche cucchiaino di gelato in fondo al bicchiere, quando mi si avvicinò una donna dal piglio dell’imprenditrice disillusa e avvezza al potere economico della piccola borghesia rampante. Senza chiedermi da dove venissi, chi fossi, cosa facessi a quell’ora in quel paesino prealpino, mi chiese se avessi gradito il gelato e mi disse che, mentre lo finivo, mi avrebbe portato le valigie nella stanza. Mi offrii di aiutarla, se mi avesse dato il tempo di finire il gelato, considerato il notevole peso delle mie valigie. La verità, però, era che non mi andava per nulla di affidare tutte le mie cose a una perfetta sconosciuta che, per altro, non mi aveva fatto una buona impressione. E non solo poiché in quel luogo, lontano da casa, tutto ciò che avevo era contenuto in quelle valigie, ma anche perché, se le avessi affidate a mani estranee, mi sarei sentita privata di pezzi importanti della mia identità.
La proprietaria accettò la mia proposta e mi lasciò finire il gelato, occupandosi nel frattempo di ispezionare i tavoli liberi dei due o tre ombrelloni esterni. Capii che lo stava facendo solo per occupare il tempo e dimostrarmi rispetto per quanto le avevo chiesto. La donna prese quindi la mia valigia più grande e pesante perché – mi disse – era esperta nel distribuire equamente il peso della valigia, senza perdere l’equilibrio nel percorrere la stretta rampa di scale che portavano alle stanze del piano superiore. Dopo i primi gradini mi sembrò infatti di salire in una prigione: scale strettissime, sporchissime, con la polvere incrostata e altra più recente, sollevata dalle suole delle scarpe, rendevano faticosa la salita. Avvertivo la presenza degli acari invecchiati, il cui sgradevole odore mi arrivava alle narici. Finalmente giungemmo su un minuscolo pianerottolo. Mi fermai, credendo mi fosse stata assegnata lì la camera. Invece la proprietaria proseguì e, salendo per una secondea rampa di scale, mi disse che mi aveva assegnata la camera più areata, al secondo piano, affacciata sulla piazza.
CONTINUA