di Lina Cammarano

Il treno trotterellava spedito lungo la costa frastagliata simile a quella della Costiera Amalfitana ed io non facevo in tempo ad esaminare le caratteristiche di un campanile che già ne affiorava un altro all’orizzonte. La gran parte si presentavano per forma e materiale tipici del Medioevo, altri sembrava si potessero collocare in epoca successiva.
In quel viaggio l’osservazione del territorio, seppur mi impediva di scendere nei particolari per meditare, per trattenermi su ciò che mi colpiva in modo più profondo, fu comunque sufficiente a farmi ripassare mentalmente le motivazioni della scelta di Trento come sede del Concilio Tridentino. Stavo scoprendo il panorama della sponda orientale del ramo di Lecco e ne avevo ricevuto l’impressione di una roccaforte del cattolicesimo, ma di una forma di cattolicesimo vissuto nell’intimità: i campanili sembrava comunicassero con calma e pacatezza costante con i fedeli dei paeselli, integrati come erano nel paesaggio, non tanto per le forme slanciate in sintonia con quelle del territorio quanto per l’eco atavico e mite rilasciato dalla sinfonia delle campane. Mi ritornavano alla mente i capitoli del Manzoni e gli aggettivi poetici di allora risultavano uguali a quelli che un qualunque viaggiatore attento avrebbe ancora attribuito a quel susseguirsi di paeselli e borghi reali e alle rispettive immagini riprodottesi sullo specchio del lago.

Giunta a Colico scesi dal treno e dovetti attendere un bel po’ di tempo la corriera per Dongo nello spiazzo destinato alla fermata dei pullman, adibito anche a parcheggio dei viandanti giornalieri provenienti dalle valli vicine. A quell’ora la strada in direzione di Colico era alquanto scorrevole, però l’autista della corriera conosceva tutti i passeggeri come le sue tasche e così aiutava a salire e a scendere dal mezzo i vecchietti che rientravano a casa con le borse con la spesa. E, se scorgeva qualcuno che si affannava a raggiungere la fermata, lo aspettava. Così, un minuto qua un minuto là, l’arrivo del treno raramente coincideva con l’arrivo della corriera/navetta e la puntualità era rispettata solo se tra i passeggeri ve ne erano alcuni che dovevano proseguire con il treno. Difatti, nei mesi seguenti, constatai che questi ultimi, appena mettevano piede sulla scalinata dell’autobus, comunicavano l’esigenza all’autista: così il traghettatore della popolazione valligiana aveva chiaro il modo in cui gestire il tempo e le esigenze che avrebbero esposto o dimostrato gli altri viandanti.
Riprovo ancora la strepitosa emozione di allora quando, nonostante il buio iniziasse ad avvolgere il paesaggio, intravidi un cartello con l’indicazione “Pian di Spagna”, una piccola pianura, oggi riserva naturale protetta, formatasi per i detriti lasciati dall’Adda che qui entra nel lago. Il Pian di Spagna, punto di congiunzione tra la Valtellina e la Val Chiavenna, è insieme a Forte Fuentes uno dei pochi luoghi che testimoniano, dal punto di vista toponomastico, la dominazione spagnola nel secolo raccontato dal Manzoni nei Promessi sposi (le “grida” spesso citate nel romanzo portano appunto la firma del Conte di Fuentes). E poi, dopo avere percorso per alcuni minuti una pianura con rare abitazioni, mi ritrovai di fronte un piccolo e illuminatissimo borgo. Non ebbi il tempo di scrutarlo, perché la corriera aveva già svoltato a destra: nella fugacità dei lampioncini barocchi appiccicati su una porzione del caseggiato, lineare e perpendicolare alla strada, sotto le luci, grande quando la parete, vidi una scritta dipinta sull’intonaco: “Osteria”. Contemporaneamente, sotto i piedi, saldamente piantati sul pavimento della corriera, avvertii le vibrazioni di un fondo stradale seghettato, il cui scopo era di ridurre la velocità dei veicoli in transito. La circostanza m’incuriosì molto e allargai lo sguardo fin dove mi fu possibile: scorsi così delle possenti e alte sbarre protettive di legno, simili alle traverse dei binari delle ferrovie. Fra le finestre affiorava una lastra blu plumbea, che catturava con la sua forza immobile il blu ravvivato dalla luce della luna e delle stelle: che stravolgente emozione!

Ero nel punto in cui l’Adda, arricchito dagli apporti del Roasco, del Poschiavino, del Mallero e del Masino, si immette nel lago di Como: il ponte sull’Adda! Mi sembrò di viaggiare nel romanzo, ma lo facevo con prudenza e cautela, non mi azzardavo a suggerire nulla alla memoria: ecco ora siamo qui, ora stiamo per arrivare lì dove il Manzoni colloca… Raccoglievo ricordi, impressioni, qualche certezza e li depositavo in attesa di trovare la quiete per confrontare la letteratura con la geografia reale. Intanto con gli occhi trasformatesi in telecamera non volevo tralasciare nulla. Le diverse tonalità del paesaggio non le potevo più riconoscere, si era fatta sera, mi era permesso localizzare solo le concentrazioni umane attraverso il brulichio delle luci provenienti dalle strade e dalle case. Eppure mi prefiguravo un’altra spettacolare carrellata di opere d’arte strappate al Cantico delle creature: Sorico, Gera Lario, Domaso, Gravedona, Dongo. Quando raggiungevamo le strade e le attraversavamo ne potevo osservare indisturbata la cura composita e il decoro sobrio, non vi era più nessuno a popolarle, dalla fessura del finestrino della corriera si udiva di tanto in tanto il battito lento, poderoso e costante del lago. Mi sembrò alquanto strano: si trattava del territorio di una provincia di una regione ricca eppure le persone non tribolavano fuori casa fino a sera tarda come nella mia città e nel mio paesello. In seguito, anzi dopo la prima settimana di permanenza nel paese dove ero stata convocata, capii da sola perché le faccende del giorno si concludessero presto la sera. Dalla camera dove trovai alloggio avvertivo che il traffico dei mezzi privati verso la Svizzera iniziava all’alba tutti i giorni dal lunedì al venerdì. Di conseguenza, al rientro a casa dopo la giornata lavorativa, le persone si raccoglievano in famiglia per riposare e così anche le attività commerciali, in particolare i negozi della vendita al dettaglio, abbassavano le saracinesche puntualmente alle diciannove. Gradualmente scoprii che avrei potuto acquistare il pane, il latte e altri generi alimentari già al mattino presto, alle sette, condizione impensabile nella mia città natia.

Non potei non riflettere che la condizione di benessere della popolazione di un territorio deriva dalla capacità di sfruttare le energie psicofisiche migliori, quelle fresche seguite al riposo notturno. Eppure quella calma placida del silenzio tra un paese e l’altro un po’ mi intristiva, evidenziandomi le divergenze dalle abitudini nelle quali ero vissuta e verso le quali avevo provato una sorta di fiduciosa normalità.
La solitudine di quella sera era eguagliabile a un’orchestra di strumenti fatti vibrare e coordinati da maestri esperti, ed io avevo bisogno solo di suoni, non di voci. I suoni denudavano la mia razionalità del sogno di ricercatrice e mi mettevano in contatto con un’altra realtà che comunque desideravo. Certo l’avrei voluta coltivare in parallelo alla ricerca, ma era quella, quella che stavo per cominciare che mi avrebbe permesso di costruire l’autonomia, presupposto fondamentale per non abbandonare mai il sogno di dedicarmi, nei ritagli di tempo, alla scoperta dell’ancora ignoto.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *