di Lina Cammarano
Vorrei planare su me stessa quella volta che più il treno accelerava e più un sentimento di gioia e magone si cospargeva su tutto il mio corpo e, nonostante riuscissi a raccogliere solo vaghe impressioni e fugaci scenografie dei paesaggi che attraversavo, ogni elemento mi appariva bello, significativo, importante, curato, coccolato, al posto giusto: in contesti adeguati, la natura si trasfigurava in arte e l’arte si personificava. Il treno correva ed io avevo la sensazione che sulle rotaie scorressero e s’infrangessero anche i confini fisici fra province e regioni.
Raggiunsi Milano nel primo pomeriggio, mi informai immediatamente da quale binario sarebbe partito il treno per Tirano, feci una repentina scovata nella memoria riguardo ai fatti e alle fonti eclatanti del luogo in cui sostavo in quel momento e valutai di non poter sfruttare bene il breve tempo di attesa, perché il treno per Tirano sarebbe partito da un binario dislocato sul lato opposto a dove si trovava lo storico binario ventuno.
Quasi con ferocia mi assalì il ricordo che da lì, da quel binario, tra il mese di dicembre del 1943 e il mese di gennaio del 1945 erano partiti 23 convogli diretti ai campi di concentramento di Auschwitz, di Bergen-Belsen, di Ravensbrück e di Flossenbürg. I deportati erano principalmente ebrei, prigionieri politici, partigiani e lavoratori antifascisti. Con il pensiero mi insinuai nel groviglio di binari e banchine ed entrai nelle pieghe di quel passato recente, terribile, di dolore e disperazione inauditi.
Nella mia mente da una parte continuavo a preservare la gioia del grande evento giunto sul mio cammino, dall’altra rimuginavo il grande caos della storia da poco trascorsa, ma ancora densa, persistente come una scia di dolore stridente che affligge i superstiti, nonché tutte le persone sensibili e propense a considerare come proprio il vissuto sociale. Intanto il tempo scorreva e mi indicava di sbrigarmi ad affrontare l’ultima tappa del viaggio.
La piazzola orizzontale, quella sulla quale cadevano perpendicolari tutti i binari, si infoltiva di passeggeri. Le loro voci creavano nel mio cuore un ulteriore distacco rispetto a quello che avevo subito a Salerno al mattino, erano troppo diverse da quelle rilassanti, senza tempo che ero abituata ad ascoltare lungo le banchine della stazione ferroviaria nella folla salernitana. Poi dai convenevoli rapidi che si scambiavano tra alcuni si intuiva che erano tutti diretti in località di montagna delle quali fino a quel momento conoscevo a malapena i nomi di quelle più famose, per cui non avrei potuto associarmi con qualcuno per chiedere un aiuto né a salire né a scendere con le valigie quando sarei giunta a Colico.
Sicuramente anch’io ero curiosa ai loro occhi, non potevo non apparire loro una migrante. Certo non potevano intuire che stessi partendo per affrontare un lavoro che avrei potuto svolgere anche nel mio paese, ma che non mi era stato possibile farlo fino a quel momento.
M’incamminai per raggiungere il binario indicato sul tabellone e aspettai pochi minuti: di seguito al nome della stazione capolinea apparivano anche tutti i nomi dei paesi delle soste previste in itinere.
Così sul display scorreva la scritta “Colico” e, contemporaneamente, una voce stridula accentuava la “o” chiusa e marcava il carattere sdrucciolo della parola “Cólicó”. Era quello il nome del paese dove era previsto che lasciassi il treno e proseguissi con la corriera.
Giunse l’ora della ripartenza, salii in un vagone abbastanza centrale del treno dimodoché, quando sarei dovuta scendere, non mi sarei trovata troppo vicina all’uscita dal binario e neanche troppo lontana. La via di mezzo, l’Etica Nicomachea aleggiavano su me… In un susseguirsi di riflessioni, raggiungemmo Lecco: intravidi il lago e cominciai a fantasticare di attraversare i luoghi del Manzoni. Poco dopo apparve Calorziocorte!
Fu allora che meditai su quanto avessi sbagliato due anni addietro a rinunciare a una supplenza.
Riflettei che, se allora mi sembrava di allontanarmi troppo da casa, in quel momento Calorziocorte mi appariva prossimo alle porte di Milano rispetto a dove ero stata convocata.
Il treno correva e il lago gli correva accanto insieme a un paese dopo l’altro: Abbadia Lariana, Mandello del Lario, Lierna, Varenna, Bellano, Dervio, Colico… davvero una parallasse infinita che mi aveva catturata all’apparire del lago e mi tratteneva incollata al finestrino, proprio come quando ci raggiunge la grazia del patto narrativo e non si avverte più il proprio corpo.
Tutto mi sembrava pittoresco ed io spettatrice privilegiata.